Recessione e declino della civiltà del lavoro: un socialista, un comunista pentito ed un economista che insegna in America, si danno battaglia.

caricatura-ferraracaricatura-fassinaQuella che vi proponiamo è la trascrizione di una lunga videoconversazione attivata da IL FOGLIO di Giuliano Ferrara con Stefano Fassina ed Alberto Bisin italiano, professore di economia presso la New York University. La discussione verte sulla recessione che attanaglia l’Italia, sul mercato del lavoro e sulle vie di uscita dalla crisi. Dei tre, il più coerente si mostra Bisin, qualche dubbio assale Fassina, Ferrara come prevedibile prova a giustificare le sue posizioni contraddittorie concedendosi pseudo licenze intellettuali: nessuno ha il coraggio di dire in TV che gli italiani lavorano poco, che non si danno abbastanza da fare, che invocano tutele e garanzie immobilizzando il paese. Che aspirano al posto fisso nella Pubblica Amministrazione, una corporazione di alcuni milioni di persone garantite. La crisi nasce da qui e non viene dall’America e nemmeno dall’Eurozona, ma dalla bassa produttività. Inoltre in Italia s’investe poco, circola poca moneta perché troppi capitali sono immobilizzati nel mattone esordisce l’elefantino. Più avanti prosegue confessando di essere un comunista pentito, di dare alle stampe un giornale grazie a sovvenzioni statali (3ml di euro all’anno), di svolgere da venti anni lo stesso lavoro con il quale si fa alfiere del capitalismo e della mobilità sociale e geografica in virtù di una presunta licenza intellettuale pensa di contribuire allo sviluppo del paese. Un pò come i Preti: fate quello che dico, NON fate quello che faccio io, sarà per questo che si è scoperto cattolico e riempie settimanalmente pagine e pagine di noisissime dissertazioni sulla Fede Cristiana e sulla Chiesa di Roma. Un furbo tra i furbi con una faccia tosta dal diametro almeno pari al giro vita. Del tutto evidente: i sacrifici fateli voi che io sto bene come sto assistito dallo Stato e protetto dal mio padrone sovvenzionato e garantito da pantalone. Interviene Fassina: la crisi ha riguardato tutto l’occidente che assiste alla fine del compromesso socialdemocratico, un processo di regressione delle condizioni del lavoro. La politica nazionale non ha più gli strumenti per regolamentare l’economia e se anche licenziassimo nella PA, se anche rimodulassimo lo stato sociale ed aprissimo tutti i mercati, c’è una tale concentrazione di ricchezza che comunque non usciremmo dalla crisi. Poi certo, quelli interventi sono da fare, ma è illusorio pensare che possano restituirci la prosperità. BisinAttacca Bisin: il Nobel Krugman è vero che chiede un maggior intervento pubblico dello stato, ma lo chiede per gli Stati Uniti dove la presenza dello stato è pari al 30% del PIL. Lo stesso poteva valere per Keines che pensava a più stato in economia, ma ragionava per un contesto in cui l’incidenza dello stato era pari al 10% del PIL. In Italia più stato è improponibile perché siamo già al 50% del PIL. Per quanto riguarda la produttività, forse è vero che in Italia si lavora meno, ma non bisogna dimenticare che una parte considerevole del lavoro è in nero (soprattutto al sud ndb). Le cause principali della scarsa produttività vanno invece ricercate nell’insieme dei fattori totali che concorrono a determinare una bassa produzione: scuola, sanità, giustizia che funzionano male, infrastrutture che cadono a pezzi. USA e Germania hanno fatto riforme, noi no. La crisi non è determinata dalla perdita di controllo della politica sull’economia anzi, molto di quanto è accaduto dagli anni ’70 ad oggi costituisce una conquista importante basti pensare alla battaglia dell’inflazione vinta grazie al fatto che sono state separate le sorti della politica da quelle delle Banche Centrali col risultato che queste ultime non sono state costrette più ad inseguire il consenso ricercato dalla politica. Diverso è invece il discorso sulla finanza, aver perso il controllo di fatto ha provocato conseguenze negative perché sono state poche grandi banche private a determinare un mercato non concorrenziale consapevoli che per le loro stesse dimensioni gli stati non avrebbero potuto lasciarle fallire e le avrebbero comunque salvate. Se però in Italia l’abbassamento delle tasse ed i tagli di spesa sono letti come una perdita di potere della politica sull’economia, commettiamo un grave errore in quanto la spesa eccessiva è un fattore distorsivo dell’economia stessa. Una raccolta ingente d’imposte oltre a sottrarre risorse all’economia reale, non produce frutti perché viene dilapidata e spesa male.
Riprende Fassina: io ho un’altro ordine per i fattori di produttività rispetto a quelli di Bisin e Ferrara. In Germania negli anni ’90 si è molto investito in ICT in Italia invece, le imprese hanno solo pensato ad allargare i loro capannoni. In Germania le imprese sono gestite da manager professionisti, in Italia la conduzione si tramanda con l’asse ereditario, sono anche questi i fattori che possono spiegare il deficit di produttività. Con la sola iniziativa individuale non si tiene in piedi un paese, bisogna riuscirgli a dare un contesto economico nel quale possa valorizzarsi come ad esempio trovare una forma giuridica nuova perché le reti d’impresa possano accedere al mercato dei capitali emettendo titoli obbligazionari e liberarsi dalla giogo delle banche. Non mi convince poi il discorso sul mercato del lavoro che in Italia patirebbe un disadattamento della domanda. Negli USA, nonostante sia il mercato libero per antonomasia, si è generata occupazione facendo leva su politiche anticicliche e monetarie. La Federal Reserve, ha continuato a stampare dollari finché la disoccupazione non è scesa a livelli fisiologici, in Europa invece, ci siamo rassegnati a pensare che la civiltà del lavoro sia irrimendiabilmente in declino e che non ci possiamo più permettere i costi delle conquiste sociali conseguite nel ‘900 perchè dobbiamo comprimere il lavoro per essere competitivi sui mercati mondiali. Ribatte BISIN: nessuno vuole in Italia un mercato del lavoro come in America che è straordinario, ma non avendo protezioni ha costi sociali notevoli. Si può però riformarlo senza eccessi per trovare una giusta efficienza ad esempio offrendo protezione al lavoratore e non al posto di lavoro improduttivo in questo modo si favorisce anche la mobilità sia geografica, sia sociale. Per quanto concerne le imprese, il carattere familiare di queste è sicuramente dovuto alla cultura italiana che nella famiglia e nelle amicizie trova tutte le risposte e risolve tutti i bisogni mentre negli USA, funzionando a meraviglia il mercato, questa necessità è del tutto assente.
Rispunta l’elefantino: In Europa si sta diffondendo una controverità: che l’austerità abbia causato la recessione, ma non è così. L’austerità comincia a dare i suoi frutti, la Grecia ad esempio, migliora il suo rating.
Chiude Fassina, un pò in contraddizione con quanto precedentemente affermato in merito alla creazione di nuova occupazione: nessuno pensa di fare crescita con deficit e debito, ma l’idea che si è affermata in Europa seconda la quale per rilanciare la crescita si debbano comprimere i salari perché qualcuno compri i nostri prodotti così resi più competitivi sul mercato globale, c’ha fatto incartare. Il debito è salito perché il PIL è calato. L’UE è troppo ricca e troppo grande per vivere diversamente, deve dunque puntare sulla domanda interna.
Conclude Bisin: c’è austerity ed austerity. Se la facciamo aumentando le tasse è come darsi un colpo sui piedi, se invece tagliamo la spesa, riduciamo i costi, allora daremo una spallata al debito e rilanceremo la crescita. Anche lo stato sociale universalistico va tagliato: ai ricchi che se lo possono pagare.
Chiosa del Blog: in pochi hanno spiegato che negli ultimi anni, i pur numerosi tagli alla spesa pubblica sono stati fittizi, non si è infatti ridotta la massa di spesa totale in termini reali. In pochi hanno sottolineato che i tagli previsti nelle Leggi finanziarie degli ultimi anni hanno riguardato il tendenziale cioè, la previsione di aumento e non la spesa in termini assoluti. Per meglio farci intendere: se per la sanità la previsione era di un aumento del 20%, quest’ultimo è stato tagliato del 10%, ma rispetto all’anno precedente si è comunque speso 110 e non 90. In sostanza NON si è ancora messo mano ai tagli, si è solamento contenuto l’aumento di spesa. E’ per questo che il debito e la spesa fanno registrare una costante d’incremento nonostante i fiumi d’inchiostro che colano sui giornali.

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